Tutte e due infermiere, tutte e due madri. Sono le undici del mattino e assieme stanno assistendo l’equipe medica nella visita quotidiana di routine ai pazienti. Due piani più sotto, i rispettivi figli di tre e cinque anni giocano assieme nell’asilo aziendale assistiti dalle maestre.
Arriva l’ora del pranzo e i menù sono rigorosamente separati: niente carne di maiale per i bambini di fede musulmana, ad esempio. Una scena più che normale se fossimo a Stoccolma. Dal sapore rivoluzionario pur nella sua semplicità qualche migliaio di chilometri più a sud della Svezia. In Israele. A Naharya. Al Western Galilee Hospital: un’isola di serenità in una terra martoriata.
INFERMIERE arabe e israeliane, qui, già lavorano insieme.
Il direttore dell’ospedale, Masad Barhoum, è un israeliano di origini arabe e fede cristiana. I degenti sono misti. Ma fra un anno questo miracolo quotidiano del dialogo e della convivenza fra ebrei, musulmani e cristiani, in un Paese in cui schierarsi da una parte o dall’altra sembra quasi ormai un dogma di Stato, sarà una realtà anche fra i figli dei duemila camici bianchi impegnati nei vari reparti di questo nosocomio di frontiera.
Al confine fra Israele e Libano, dove si contano forse più morti per chilometro quadrato che in altre parti del mondo, il Western Galilee è abituato ai miracoli. Nell’estate del 2006, durante la seconda guerra israelo-libanese, ha curato più di 1.800 feriti d’arma da fuoco fra civili e militari. E sempre in quell’estate, con più di 800 missili “Katiuscia” caduti nella Galilea occidentale, il bunker dell’ospedale visse il suo momento d’oro. Programmato per essere in grado di evacuare 650 pazienti in un’ora e dirottarli in zone antimissile, il western Galilee trasferì nei sotterranei a prova di bomba le sale operatorie e tutto il personale. Famiglie comprese. La superficie a ridosso del bunker e in parte il bunker stesso, adesso, diventeranno il primo asilo mai realizzato all’interno di un ospedale israeliano.
L’asse Israele-Palestina-Terra Santa passa da Milano. Dalla bella casa a due fermate di metrò dal Duomo di Elena Fazzini, che d’Israele, di questa terra bruciata dal sole e dal suo incrocio di culture, religioni e tragedie è rimasta affascinata. Scopre lo Stato ebraico nel 2006, Elena, quando riesce a riunire un gruppo di 35 giovani professionisti lombardi che in soli 18 mesi progetta, finanzia e costruisce il reparto di Neonatologia dell’ospedale italiano Sacra Famiglia di Nazareth. Un impegno finanziario notevole, pari a quasi un milione di euro, sostenuto dalla Regione Lombardia e dalla Fondazione Milan. Entra in gioco anche il presidio ospedaliero San Gerardo di Monza che si occupa degli aspetti medico-scientifici dell'iniziativa.
«Quando ho visitato il Western Galilee un anno fa Masad Barhoum mi ha chiesto di realizzare un asilo per i bambini dei dipendenti che potesse essere funzionante anche in tempi di guerra. Nel 2006 i piccoli portati nei rifugi per tre mesi avevano usufruito di una scuola materna all’interno del bunker nata dal nulla. Sarà un edificio ecocompatibile e autosufficiente sviluppato su due livelli, uno in superficie e all'occorrenza, in caso d'attacco, uno sotterraneo. Dove poter ospitare fino a 50 bambini e far crescere la pianta del dialogo». Il nord della Galilea è un coacervo di credi ed etnie: «ll 50 per cento sono ebrei, il 50 per cento arabi cristiani, drusi e musulmani. E così che ho pensato che un progetto educativo dedicato ai bambini in età prescolare non potesse prescindere dal rispetto delle identità di ciascuno». ELENA, sangue veneziano nelle vene e studi di politica internazionale che l'hanno portata a lavorare alle Nazioni Unite a Ginevra ("il mio accento veneziano non si sente? E’ perché l’ho perso sposando un milanese doc", scherza) a quel punto capisce cosa bisogna fare. «L'idea innovativa che abbiamo sviluppato è di mettere al servizio del mondo non profit le eccellenze del mondo profit. I progetti possono essere più costosi, ma al tempo stesso più efficienti. Mi baso sulla ricerca dei cervelli migliori che si mettano a disposizione per un obiettivo comune. Un asilo che non sarà solo funzionale e concepito secondo ciò che c’è di più all'avanguardia in campo pedagogico in questo momento, ma anche bello. Perché secondo me la bellezza è un valore e può davvero fare la differenza. Educare tramite la bellezza significa esprimere l'eccellenza che ciascuno ha nel cuore». Elena torna a Milano e comincia a lavorare al progetto con la sua Fondazione "Hope" ("speranza" in inglese; old-hopeonlus.nohup.it). Ottiene dalla Regione Lombardia - che le conferisce il Premio per la Pace 2009 - un finanziamento che copre in parte i costi dell'opera che sono di circa 1 milione e 300 mila euro. Contatta lo studio d'architettura Rossi e Consalez a cui tocca il compito di recuperare uno spazi di 3 mila metri quadrati. Bussa anche alle porte del Politecnico e dell'Università cattolica. Il team poi si allarga e l'asse Milano-Naharya arriva ad estendersi ad alcuni architetti locali. «C’è però ancora bisogno di aiuto e di esperti nei diversi campi che vogliano collaborare con noi. Il traguardo è ambizioso». Elena è tornata in Galilea a febbraio per fare il punto col direttore Barhoum. Assieme al figlio più piccolo, Pietro. Nonostante la presenza del bambino e i già diversi visti presenti sul passaporto l'interrogatorio del servizio di sicurezza della compagnia aerea El Al al check in di Malpensa è stato ferreo e rigoroso come sempre. Anche con un'amica d'Israele come Elena. Che è sicura di quello che diventerà l'asilo una volta aperto: «Un posto bellissimo». Nella civiltà greca, del resto, la bellezza non si identificava forse con ciò che è buono? «Il seme della bontà in Terra Santa può fare miracoli».