Moni Ovadia lo ripete spesso a chi gli chiede della situazione in Medio Oriente.
«E' come se un uomo, imprigionato in un palazzo in fiamme, si fosse lanciato dalla finestra atterrando sulla testa di un passante. Dopo lo spavento i due si mettono a litigare e a picchiarsi». C'è una cucina però, in Israele, che dimostra che il conflitto non è un destino ineluttabile. Si trova nell'orfanotrofio di Seforis, vicino Nazaret. In cima ad una collina, all'interno di un kibbutz ebraico in un'area del paese prevalentemente abitata da arabi musulmani. Accoglie 75 bambini, fra i 3 e i 17 anni, orfani, in affido e con gravi problemi familiari. Senza distinzione di etnia o di religione. Sorge vicino alle rovine della chiesa costruita sul luogo in cui è nata Sant'Anna, la madre di Maria. E sono proprio le suore dell'ordine di Sant'Anna che accudiscono i piccoli ospiti. Dentro questa cucina, dove si sta lavorando per la sua inaugurazione, c'è Silvano Costantini, uno chef italiano mandato da Electrolux, l'azienda che ha progettato il nuovo ambiente, intento a dirigere una linea unica al mondo. Ai fornelli ci sono delle ragazze arabe musulmane su cui vigila una suora cattolica. Nella stanza a fianco le verdure vengono affettate da Orith Kolodny, ebrea italiana e due suoi amici ebrei di Tel Aviv. Poco più in là decide di darsi da fare anche Massimo Portaleone, di origine romane ma di passaporto israeliano, in passato graduato dell'esercito e combattente contro Hezbollah in Libano. Alle prese con frullatori e impastatrici ha bisogno dell'aiuto di Marina Spadafora, ex stilista di grido oggi guru di moda etica, buddista. Ci sono da fare dei biscotti a forma di topo. Così si decide di far partecipare anche i 75 bambini che vivono nella struttura. È un esplosione di colori. Da un lato le grida dei bimbi, dall'altro il romanesco dell'artista Alessandro Valeri. È qui per fare scatti da usare in una sua mostra a Milano. E invece decide di mettersi a impastare in mezzo ai piccoli. Sulla porta le educatrici, arabe laiche, rinunciano a mantenere il controllo della situazione. Il frastuono richiama il direttore, Nabil, arabo cristiano che butta dentro la testa e scoppia in una risata. Ma una cucina da sola può riuscire dove negoziati di decenni hanno fallito? No certo. Non è la cucina ad essere magica. Anzi la magia non c'entra per niente. «Sono le sorelle. Queste suorine sono un dono di Dio», spiega Portaleone. Qualcuno, spaesato gli chiede se abbia deciso di convertirsi, «mai, ma comincio a credere che Dio ci guardi tutti: ebrei, cristiani e musulmani». Suor Clementina, la priora, mi indica un'altra religiosa che sta consolando una bimba in lacrime. «Suor Rosa è il più grande miracolo di questo posto», mi sussurra, «non parla arabo, ma si fa capire dai bambini».
L'appello e la festa
La comunità d'accoglienza di Seforis è gestita da tre suore, due italiane e una egiziana, in collaborazione con una trentina di educatori, assistenti sociali, psicologi e una ventina di volontari. La struttura ospitante è molto antica e ha bisogno di alcuni interventi di manutenzione straordinaria. Il rischio è la chiusura. La direzione ha lanciato un appello e a raccoglierlo è stata Hope onlus, che si è incaricata di realizzare una nuova cucina suddivisa in quattro locali con le relative apparecchiature, di predisporre il sistema antincendio ora inesistente, di ristrutturare l'area adibita ad alloggio per le bambine. Un progetto di ristrutturazione che, dentro e fuori dalla cucina, si è trasformato anche in una festa. Siamo in pieno Kippur, festa ebraica in cui si deve stare in silenzio e fare memoria dei peccati.
Ma è anche il compleanno di suor Clementina. Così le ragazze della comunità decidono che bisogna festeggiare. Tutto il kibbutz è investito da musica dance martellante. Balli sfrenati scoppiano nel piazzale di fronte alla struttura. Orith Kolodny si avvicina a Elena Fazzini, presidente di Hope onlus, «Che contrasto incredibile...».
È l'ultima sera ed è ormai tempo di fare le valige. Sotto la porta della camera di una volontaria di Hope onlus spunta un biglietto. È un'ospite dell'orfanotrofio. C'è una sua fototessera pinzata con una frase: «Don't forget me». Non dimenticarmi. Non c'è pericolo, non può capitare. Tornano alla mente le parole di Luigi Mattiolo, l'ambasciatore italiano ospite all'inaugurazione della cucina: «Questo posto non è solo una speranza. E' un esempio che va esportato. Deve uscire dai cancelli di questo kibbutz».
90 anni di impegno
Seforis è una cittadina che dista circa 6 chilometri da Nazaret e che la tradizione cristiana considera come la terra natia di S. Gioacchino e S. Anna, genitori di Maria. Nel 1923 due religiose dell'Ordine delle Figlie di Sant'Anna intrapresero un difficile viaggio per raggiungere la terra dove avrebbero iniziato il loro apostolato. Si stabilirono nella zona nel 1925. Durante il primo conflitto arabo-israeliano la città di Seforis fu totalmente distrutta ma la casa delle Figlie di Sant'Anna rimase intatta. A causa del conflitto la comunità cominciò ad ospitare i bambini che rimanevano orfani. Iniziarono con quattro bimbe. Pian piano però il numero degli ospiti cominciò a crescere.
Fu così che nacque l'Orfanotrofio di Seforis. Nel 1987 l'Istituto educativo assistenziale è stato ufficialmente riconosciuto dal ministero degli Affari sociali. Il progetto educativo mira ad una formazione integrale dei bambini, accolti dall'età di 3 anni fino al compimento della maggior età. old-hopeonlus.nohup.it.