Nazareth (Israele, dicembre). Macchè, Karim proprio non riesce a stare fermo. Cammina nervoso lungo la sala d'attesa, conta le piastrelle azzurre del pavimento, si accarezza la barba, guarda insistentemente l'orologio. L'eccitazione è troppa: Jasmine, sua moglie, sta per dare alla luce il loro primo figlio. Fuori dalla finestra, il sole splende alto nel cielo terso di Nazareth. Siamo a dicembre, ma in Galilea sembra primavera. Quando si apre la porta della sala parto, Karim fa un salto sulla sedia. Dal corridoio spunta una suora, la croce d'argento appesa al collo. Tra le braccia, un neonato avvolto in una copertina bianca. «Il signor Hassam? Ecco il suo bambino: sta benissimo», gli dice sorridente.
Dietro di lei il ginecologo, un medico ebreo di grande esperienza, si avvicina a Karim per stringergli la mano e fargli le congratulazioni. Il suo Mohammed è nato alle 11.27 di un luminoso mattino di dicembre, e ha già gli occhioni neri sgranati sul mondo. Un bimbo arabo nato in terra di Israele per mano di un'ostetrica cristiana, con l'aiuto di un medico ebreo.
Un sogno di Natale? No, è tutto vero. All'Holy Hospital di Nazareth musulmani, cristiani ed ebrei lavorano e vengono curati fianco a fianco, in nome della pace. Un luogo dove non esistono tensioni, né rivendicazioni, dove non si parla di territori occupati, né di terrorismo. Ma dove si applica l'unica legge che ha un senso, e non solo nei giorni che celebrano la nascita di Gesù: quella della fratellanza.
E’ una storia antica, quella di questo ospedale, che a dispetto del nome inglese è tutto italiano: fondato dai frati Fatebenefratelli nel 1882, all'origine era solo un ambulatorio con quattro letti di ferro, poco più di un sanatorio creato per poter assistere la popolazione di Nazareth senza fare nessuna differenza fra cittadini arabi, copti ed ebrei. Oggi, l'Holy Hospital è un centro medico all'avanguardia con più di 100 posti letto, 10 reparti, 11 ambulatori. Ma lo spirito è rimasto lo stesso di cento anni fa: lavorare insieme per aiutare la gente della Galilea, senza distinzioni di razza o religione. Né fra medici, né fra pazienti. Nella sala d'attesa piena di luce, Karim stringe felice la mano al medico che ha aiutato sua moglie a partorire, ringrazia la suora, e prende in braccio il suo piccolo Mohammed. Oggi Karim non è un arabo che vive in una terra di sangue e conflitti: è solo un papà commosso e felice.
Una scena lontana dalle immagini che vediamo ogni giorno al telegiornale. «Ma in questo ospedale è un evento quotidiano. Questo è un luogo eccezionale, un posto dove la pace non è un concetto astratto, ma una pratica quotidiana fatta di aiuto e solidarietà. Se solo tutti i palestinesi e gli ebrei potessero curarsi in posti come questo...», sospira Elena Fazzini, presidente di Hope, la onlus italiana fondata per sostenere l'Holy Hospital dal punto di vista economico e organizzativo. La cosa più bella, ci spiega Elena, è che la popolazione non viene qui solo perché questo è un ottimo centro medico: «Sarebbe facile, no? Scegliere l'ospedale italiano, come lo chiamano, solo perché si viene curati bene. Invece no: i cittadini di Nazareth a questo posto sono sinceramente legati. E non si limitano a venire per farsi medicare un taglio o per partorire: vogliono collaborare concretamente alla vita dell’ospedale». Prendete Odette Shomar. Sessant'anni, alta robusta, gli occhi color brace, passa con disinvoltura dall’arabo all'ebraico. «Odette è la più vulcanica e infaticabile delle organizzatrici dell'Holy Hospital. Viene da una ricca famiglia arabo-cristiana, molte delle loro terre sono state occupate con la costituzione dello Stato d'Israele. Ma il rancore, Odette, non sa neanche cosa sia. Il piccolo bazar dell’ospedale l’ha creato lei, con l’aiuto di donne arabe e israeliane». Il bazar si trova in una stanza coloratissima, i tavoli pieni di oggetti di artigianato locale: tovaglie ricamate, tende tessute a mano, bracciali di argento smaltato. Tutti oggetti realizzati da donne musulmane, berbere, druse, copte, ebree, che usufruiscono dello spazio messo a disposizione dall'ospedale per vendere i loro manufatti. Li vi può capitare di incontrare due ragazze che si scambiano divertite consigli durante lo shopping. Come Maryam, una giovane donna velata, e l'israeliana Sarah, entrambe mamme da pochi giorni. Sono diventate amiche nel reparto di ostetricia. Per partorire qui, Maryam avrebbe dovuto pagare: gli arabi residenti nei territori occupati non hanno diritto al trattamento sanitario. «Ma qui curiamo tutti, senza eccezioni. E se la mutua non c'è, amen. Noi ci siamo sempre», commenta suor Maria Teresa, religiosa italiana dallo sguardo vivissimo che lavora a Nazareth da più di trent'anni e parla cinque lingue («ebraico, arabo, inglese, italiano e bergamasco!»). Ma questo è un piccolo pezzo d'Italia, dicevamo. E quindi è di casa nostra anche l'aria. Anzi, il profumo. Quello del caffè. La sala-ristoro ha il bancone di legno, gli scaffali, l'insegna Piccolo Caffè. Come un bar italiano. «Esatto. Uno dei tanti gesti di solidarietà del nostro Paese», spiega Elena Fazzini. «L'arredo apparteneva a un barista di Lecco che stava ristrutturando il suo locale e non sapeva che farsene. Ce l'ha regalato, e una squadra di volontari riminesi è venuta fin qua a montarlo». E gratis sono arrivati anche i mobili della sala d'attesa in cui sedeva Karim: fabbricati per il set di una fiction a Cinecittà, erano stati abbandonati in un magazzino. Il merito di questi utilissimi «ritrovamenti» è ancora italiano: l'eclettico trovarobe delI'Holy Hospital, infatti, è l'ingegnere Ettore Soranzo, uno stimato professionista che dopo aver a lungo lavorato per l'Ospedale San Raffaele di Milano, da qualche anno si ingegna per rendere l'ospedale italiano di Nazareth sempre più bello e funzionale. «La generosità dei volontari è fondamentale per far funzionare questo posto. E per volontari non intendo solo chi viene dall'Italia a dare una mano come infermiere o elettricista, ma anche la gente di Nazareth, che vive l'Holy Hospital come un luogo di pace da preservare e sostenere in ogni modo, dice ancora Elena (che non vorrebbe si scrivesse, ma anche lei è una volontaria: a Milano infatti ha un impiego di grande responsabilità per una compagnia di assicurazioni). Il reparto maternità, per esempio, è frutto della creatività delle donne di Nazareth: le tende colorate, i mosaici intorno agli specchi del bagno, i letti di legno recuperati, sono state loro ad aiutarci a decorarlo. E ora si vantano di partorire in un ospedale accogliente come una casa, sorride Elena.
Il volontariato è importante, ma non basta. Perchè se è vero che l’ospedale italiano di Nazareth è un esempio straordinario di integrazione e grande qualità delle cure, è anche vero che per quello che ci sarebbe da fare i soldi non bastano mai. All’Holy Hospital, infatti, nascono 1.700 bambini all’anno (durante il conflitto israelo-libanese dell’estate scorsa le nascite sono arrivate a 300 al mese, e i medici hanno dovuto fare i doppi turni). I piccoli come Mohammed, che nascono al termine della gravidanza, godono della migliore assistenza possibile, ma per i prematuri c’è ancora molto da fare: mancano incubatrici, culle termiche, apparecchi per il monitoraggio cardiaco, spiega Elena. Lo spazio per il reparto di terapia intensiva neonatale è già pronto, ma sembra un bunker postatomico: un’ala di 800 metri quadri in cemento armato, che aspetta solo di ricevere letti e apparecchiature per diventare operativa. La Fondazione Milan, attraverso il suo segretario, l’ex calciatore brasiliano Leonardo, si è impegnata a raccogliere 750mila euro che serviranno a terminare di costruire e ad arredare l’intero reparto. E l’ospedale San Gerardo di Monza sta avviando un progetto di gemellaggio per sostenere le attività mediche. Ma mancano ancora all’appello 300mila euro per le incubatrici e tutte le altre apparecchiature, ed Elena Fazzini, in nome della onlus Hope, sta facendo del suo meglio per raccogliere fondi nel nostro Paese. Difficile? Un piccolo passo alla volta e ce la faremo, risponde fiduciosa questa giovane donna piena di entusiasmo. Poi ci racconta una storia. Qualche giorno fa sono stata contattata da Alberto, un ragazzino milanese di quindici anni, che aveva letto sui giornali l’appello dell' associazione Hope per contribuire all’acquisto di una culla termica. Invece che chiedere in regalo a Gesù Bambino un telefonino o un videogioco nuovo, Alberto ha destinato il costo del suo regalo all’Holy Hospital, e ha organizzato nella sua scuola - l’American School di Milano - una lotteria al grido di “Adottiamo per una culla”, con tanto di volantinaggio e colletta fra i professori all’ora di ricreazione. Per raggiungere l’obiettivo manca poco. Una culla per i bambini che nasceranno nell’ospedale della pace, in Terra Santa, nella città di Gesù. Il più bel dono di Natale.